Sannita

Il radicale (a piede) libero


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Affanculo tutti

Ieri mi sono sloggato da Facebook e non ho intenzione di tornarci per un bel po’. Direi almeno fino a domenica, poi si vedrà.

La tentazione di vedere le notifiche è forte, la sicurezza che la chat venga usata per mandarmi dei messaggi relativamente urgenti c’è – ma non mi importa. La mia libertà da quella che è diventata una fonte di stress è più importante. Chi vuole raggiungermi (e chi sa come farlo) lo farà, anche se non accederò a Facebook. Magari ci sarà anche gente contenta di non avere più notifiche sui miei like o sui miei commenti, gente che sarà felice di non avermi nei suoi feed. Good on you, mate, perché anche io non ne posso più di te.

Il motivo del mio burnout è stato piuttosto “serio”, uno status in cui ho auspicato che Hamas fosse schiacciata dai cingoli dei carri armati israeliani, a cui ho ricevuto una serie di commenti che davano contro Israele. Alla fine ho sbroccato con un chiaro “andate a fare in culo” e ho fatto ragequit – comunque una mezza misura rispetto alla chiusura temporanea del profilo, a cui sto pensando da un buon anno, anno e mezzo.

Sì, è vero, sono un filo-sionista piuttosto duro e puro (meno di quanto do a vedere, in realtà), ma non è questo davvero il punto. Il punto è che questa decisione si inserisce in un momento in cui sto seriamente riflettendo su molte cose, in primis la necessità di dover esternare qualcosa – su un social network, come nella vita reale.

Le nostre opinioni non contano niente. “A nessuno importa”, come ha scritto anni e anni fa un (ex-)sysop di Wikipedia. Ed è vero. Da quando nacquero i blog fino ad oggi, abbiamo pensato che “scrivere la propria opinione” fosse sinonimo di “fare giornalismo” – col mito di Ostellino, Panebianco, Augias, Scalfari, Mauro, ecc. – che la nostra opinione contasse effettivamente qualcosa, che un nostro status sulla crisi di Crimea, sui bonzi che si danno fuoco, sulla pasta scotta potesse influire sulla rotazione terrestre. Non è così.

Si tratta di una realizzazione che si è fatta man mano sempre più chiara negli anni, diciamo a partire dal 2011 in poi, per quel che mi riguarda. “A nessuno importa” quello che penso o quel che faccio – e questo vuole già essere un punto di vista ottimista, perché ho imparato negli anni che, anzi, più parli di te, più attiri segrete invidie e desideri che tutto ti vada male – “a nessuno importa”, dicevo, né a me in effetti frega cazzi di quello che altri fanno, dicono, pensano.

Soprattutto negli ultimi mesi, ho avuto modo di tastare con mano la feccia del “web-pensiero”: fascisti ciccioni e unti, che repellono sul piano umano prima ancora che ideologico, che ti fanno capire che non è quello che pensano a farteli schifare, quanto effettivamente quello che sono; donne di mezz’età che cercano nel like e nei complimenti di estranei quel che manca loro in termini di profondità intellettuale o di serenità interiore; signoraggisti, complottisti, razzisti, ignoranti di ogni specie, da quelli che si lamentano dei negri in nazionale che guadagnano miliardi mentre il popolo fa la fame a quelli che non vogliono pagare le tasse e fanno finta di essere eroi libertari; in definitiva, persone che ti danno fastidio per la propria tracotante ignoranza e cafonaggine. Persone per cui ti trovi a dire “ma io davvero devo difendere il diritto alla libera espressione e al voto libero pure per questi idioti?”, trovandoti troppo spesso a pensare che “no, non ne vale la pena”.

Mentre aumentava il mio disprezzo verso questi ignoranti, sentivo aumentare anche la mia rabbia sorda e cieca verso tutto quello che mi circonda. Mi sono reso conto che stare su Facebook era diventato qualcosa di compulsivo, qualcosa che non era sano – nel senso della salute fisica, non mentale. E io ho bisogno di stare bene, soprattutto perché sto seriamente riflettendo sul mio futuro.

Questo anno è stato particolare e continua ad esserlo, perché sto provando a rompere determinati tabù: ho trovato un lavoro che mi fa alzare la mattina e mi costringe comunque a una routine quotidiana casa-lavoro-casa; ho fatto il corso per la patente e di qui a due settimane dovrò affrontare la prova pratica (ossia, mi sono costretto ad affrontare la mia fobia per le auto); mi sono lasciato con la mia fidanzata (che pure ha contribuito a farmi capire, assieme ad altre persone che mi vogliono bene, che dovevo cambiare per il mio bene); ho interrotto una serie di rapporti con persone estranee che portavano vantaggi ridotti rispetto al disagio che mi procuravano; ho perfino ricominciato a prendere confidenza con la bici, perché vorrei finalmente perdere quei dieci chili in più che ho accumulato negli ultimi due-tre anni, ma soprattutto vorrei perdere quella indolenza che si è fatta forma mentis; ho iniziato seriamente a riflettere su cosa fare da grande, visto che l’anno prossimo faccio 30 anni, le mie prospettive lavorative sono buie e non ho più tempo per rimandare decisioni importanti.

Insomma, con i miei tempi e con i miei modi, sto cercando di crescere, di levarmi dalle palle le persone negative e di lasciare intatti i rapporti solo con quei pochi che mi fanno stare bene. Facendolo davvero, non dicendolo e basta.

Volevo da qualche parte infilare il fatto che, forse, non voglio più fare il giornalista come desideravo fare 15 anni fa. Perché ho osservato il continuo degrado di una professione che mi ha affascinato, che mi ha fatto sognare di diventare direttore dell’Economist entro i 40 anni – mentre adesso spero, entro quella stessa età, di avere un lavoro piuttosto stabile, qualunque esso sia, e una forma di famiglia, magari anche un figlio o una figlia con cui giocare una volta rientrato a casa la sera.

Il dubbio sul mio futuro mi assale proprio per la questione delle opinioni: il giornalismo italiano è diventato opinione su tutti i fronti, non c’è più alcuna intenzione di approfondire le cose, ci si appoggia a persone che non raccontano i fatti come sono, ma dicono semplicemente la loro. Un talk show in formato quotidiano stampato. Questo quando poi non diventa direttamente pornografia applicata alla cronaca nera o “il video del gattino nero che si gratta le palle in mezzo alla strada trafficata che ha commosso il web”.

Mi assalgono i dubbi quando penso che perfino fra i miei amici ci sono persone che, nel frattempo, si sono saputi specializzare meglio di me, hanno saputo fare certe scelte meglio di me, hanno saputo cogliere occasioni meglio di me. Che, in definitiva, percepisco essere considerati “più affidabili” di me – cosa che ammetto non mi fa granché piacere, perché significa che nel già asfittico panorama a cui mi rivolgo ci sono ancora meno opportunità per me.

Capite bene che, in una situazione del genere, non posso permettermi più di rovinarmi una serata perché scrivo qualcosa su Facebook e arrivano persone a farmi le maestrine sotto il naso, “perché qui, perché qua, perché così, perché cosà”. Ha detto bene il mio amico Leonardo: “dove non può la censura, può l’auto-censura”. Spiacente se non ritengo di poter vivere una vita in cui sono costretto ad auto-censurare quello che penso non per rispetto a un amico, ma perché non voglio rotture di cazzo. In un momento in cui sto seriamente pensando di buttare alle ortiche il tesserino da pubblicista, in cui ho deciso di non fare l’esame da professionista, in cui è per me improrogabile decidere che direzione prendere, non posso perdere tempo a litigare su Facebook. Non me lo posso permettere, e forse non me lo merito nemmeno. Quindi, affanculo tutti. Per ora.